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Insediamento: CARLO PETROLLA

CARLO PETROLLA

 

GLI AGOSTINIANI E LA CHIESA DI SANTA RITA

 (N.S. DELLA CONSOLAZIONE)

IN SAVONA

 

CENNI STORICI

savona 1987

 

LA CHIESA DI SANTA RITA IN SAVONA

Poco lontano dalla foce del torrente Letimbro, alla sua destra, sorge la chiesa degli Agostiniani, la cui fondazione fu autorizzata con sigillo del settembre 1486 “in legationis culmine” dal Cardinale Legato Giuliano della Rovere (poi Papa Giulio II) in seguito a supplica di tale Paolo Forte, fratello di Fra Giovanni Bernardo Forte, Marco Fiorito, Giacomo Olivieri e di altri nobili savonesi. Nonostante l’esistenza della precitata e datata bolla autorizzativa vi sono anche tracce materiali, ed altre documentali, indicanti che ancor prima già era stato costruito un altare, situato nella cavità della conca absidale, la cripta. Da ciò si può prendere in considerazione l’ipotesi d’un già esistente tempietto di tipo paleocristiano, dove veniva praticato il culto anche per i trapassati, che venivano deposti nei loculi sotterranei del tempietto; questi erano comunicanti con la sponda destra del Letimbro, con camminamento anch’esso sotterraneo che ora è occultato. Non per niente il tempietto risulta situato nell’area cimiteriale dell’epoca ed era adibito ad oratorio sacrale, così come può essere rilevato dall’esame di antiche carte topografiche di Savona. Nel corso di rilevanti lavori edilizi, compiuti nella chiesa nel 1980, si ebbe occasione di riscontrare che il sotterraneo, sottostante il presbiterio, aveva le pareti laterali decorate con dipinti sacri primitivi. Le figurazioni erano ancora chiaramente visibili seppure notevolmente degradate per il lungo tempo trascorso e per l’umidità. La pavimentazione di detto sotterraneo, seppure sconnessa, aveva ancora alcune piastrelle in cotto ceramico. Una di esse attirò l’attenzione del lavoratore Egidio Rovere in quanto la piastrella, di colore azzurro cupo, riportava l’immagine di un angelo ed in cifre romane la data del 1371 o 1372. Il Rovere ritenne interessante il ritrovamento e consegnò la piastrella ad un frate che la prese con sé. Non è stato possibile però prendere visione di detta piastrella per accertare con esattezza la data indicata, perché di essa si sono perdute le tracce. Il Rovere invece tenacemente rammenta con chiarezza le caratteristiche di quella ceramica e solo non ricorda bene se vi era scritto l’anno 1371 o 1372. Con ciò risulta assodato che il tempio in questione esisteva, sia pure con altra struttura, prima del 1495. Da notare inoltre che, nel sotterraneo già citato, sono ancora visibili le parti iniziali di una struttura catacombale, ora completamente ricolmata di detriti durante i lavori già menzionati. Il personale addetto ai lavori eseguì alcune ricognizioni in dette catacombe, ma ben presto rinunziò alla continuazione delle ricerche perché impressionato dai lugubri ritrovamenti di sarcofagi con arcosolio. La difficoltà maggiore era rappresentata da una inesistente specifica preparazione professionale per condurre ricerche di tal genere. Pertanto, si procedette al riempimento di ogni cosa con detriti terrosi, probabilmente seppellendo reperti di sicuro valore e -forse- tali da permettere di collocare in un tempo più remoto le origini del tempio di cui si sta trattando. Occorre rilevare ciò che è stato ritrovato, molto tempo prima, sotto l’abside, in occasione dei lavori eseguiti per l’installazione della caldaia per il riscaldamento del convento e della chiesa. In corrispondenza degli stalli del coro, nel sottostante sotterraneo vi era una specie di coro in pietra e, sulla gradinata, erano posate sedute salme di frati. Le pareti del sotterraneo erano decorate con dipinti sacri. Il Rovere, anche allora addetto ai lavori, riferisce che poco dopo l’apertura del sotterraneo si verificarono strani scricchiolii. Secondo il Rovere stesso le salme predette si frantumavano al contatto dell’aria per cui si udivano quei sinistri rumori. Detti resti furono rimossi, il locale fu adattato per impiantare la caldaia e le pareti dipinte furono rivestite con uno strato di mattoni. Si modificò quindi la preesistente cripta sotterranea, che -come si era scoperto- era collegata con una struttura catacombale nella quale si deponevano i defunti. Quanto prima detto porta solo a formulare ipotesi basate su labili indicazioni che il tempo tende a cancellare; perciò le prove devono considerarsi ormai smarrite nella notte dell’ormai lungo e lontano passato. Con l’avvicendarsi degli anni, dei costumi e delle alternanze delle condizioni sociali e politiche, anche il tempietto deve averne subito le sorti. Si può ben immaginare come su di esso si sono certamente alternate radicali modificazioni, intrecciate con abbandoni e quindi riprese, come quella voluta dalla bolla Cardinalizia enunciata all’inizio. Pertanto, in mancanza di documenti datati, non ci resta che iniziare la storia della chiesa dal tempo in cui invece non mancano prove concrete. Si ritiene opportuno però, prima di andare oltre nel parlare della chiesa, fornire alcuni cenni storici sugli Agostiniani di Savona.

 

GLI AGOSTINIANI DI SAVONA

Le notizie più remote al riguardo risalgono alla metà dell’anno 1200, epoca in cui nel savonese cominciava ad albeggiare un vero e proprio rinascimento religioso e culturale. In tale epoca gli Agostiniani avevano il loro eremo a San Bartolomeo del Bosco, località a circa 12 km da Savona, e conducevano la loro esistenza contemplativa con grande dedizione alla preghiera ed alle più severe penitenze, senza tuttavia avere la diretta cura pastorale del popolo. Nel marzo del 1256 il papa Alessandro IV fuse le numerose fondazioni di eremiti agostiniani in un unico “Ordine degli Eremitani di S. Agostino”, disponendo che i frati trasferissero i conventi nelle città e che si dedicassero anche ad espletare l’attività pastorale della chiesa direttamente in mezzo al popolo, in modo analogo a quanto da tempo operavano i Francescani ed i Domenicani. Pertanto, gli eremiti di Savona lasciarono il bosco e si stabilirono presso la città a San Ponzio, l’attuale chiesetta di Santa Lucia. Del vecchio eremo agostiniano non rimane ora che la piccola chiesa, rifatta ed ammodernata e quindi eretta a sede parrocchiale nel 1918. L’agostiniano fra Gherardo Vasconi da Senna Alta, nuovo vescovo di Savona eletto nel 1342, volle gli Agostiniani dentro le mura della città. Così nei pressi della Torretta vennero eretti la chiesa ed il convento di Sant’Agostino. L’avvento nel 1431 del papa Eugenio IV, Gabriele Condulmer, di ispirazione agostiniana, diede luogo nel 1439 al Concilio di Firenze, in Contrapposizione a quello di Basilea, che decise anche la riforma della Chiesa a mezzo delle “Congregazioni dell’Osservanza”. Nel 1443 fu fatto il primo tentativo di introdurre la riforma nel convento agostiniano di Savona, ma ciò si concluse in modo infruttuoso. Solo nel 1462, per merito del priore fra Paolino di Milano, si potè attuare definitivamente la riforma del convento di Savona. Affermatasi così ovunque l’osservanza, con il passare del tempo, la riforma assunse un vero senso rigorista, originando quindi nel 1489 anche i recolletti di Sant’Agostino. Fra Paolino ebbe anche il merito di ampliare il monastero, accrescendo la santità dei costumi e delle istituzioni religiose; il successore Lucchino Arconati continuò la sua opera elevando ulteriormente la considerazione ed il prestigio del convento, tanto che a Savona la Congregazione tenne il suo XVII Capitolo Generale. In questo nuovo ambiente dotato di elevata spiritualità operarono in santità, operosità e cultura: padre Gian Bernardo Forte, massimo artefice della fondazione della Congregazione della Consolazione; padre Zaccaria Bozzoni, prima priore e poi penitenziere in San Pietro a Roma, indi sacrista pontificio di Giulio II. E’ il caso di ricordare fra Giovanni Bono, savonese, allievo di tipografi tedeschi che impiantò per la prima volta a Savona, nel convento, una tipografia dove furono stampati, con caratteri metallici, diversi libri. Egli si avvalse della collaborazione, come corettore, di Venturino De’ Priori, insigne umanista, grammatico e poeta ligure. Rimase famosa la stampa nel 1474, nel cenobio di Sant’Agostino, del “De consolatione philosophiae” di Boezio. Però la perla più fulgida degli Agostiniani savonesi fu un umile frate: modesto, poco colto, trascorse la sua vita fra il convento, gli adempimenti ecclesiali ed il letto degli infermi. Si traatta di fra Bonifacio Vaserario, esempio eccezionale di ogni genere di virtù e bontà, che scartò tutte le vanità terrene, per rivolgere la sua mente solo alla contemplazione del Celeste, nel cui seno ambiva esistere e dove poi giunse l’anno 1510, pronunciando parole devote proprie dei santi. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di Sant’Agostino, in una cappelletta con lampade accese e tenuto in venerazione, essendo il suo nome annoverato nel “Catalogo dei Beati Eremitani” da Giuseppe Panfilo vescovo Signino. Dopo molti anni il corpo del Beato Bonifacio venne trasferito nella cappella antica dei Gastodenghi, posta nella chiesa stessa. Infatti nel 1585 monsignor Moscardi dispose che gli venisse fatto un degno sepolcro marmoreo, come si conveniva ad un beato. Così, nell’anno 1599, devotamente furono levate le ossa e le ceneri del Beato e furono riposte in un’urna foderata di damasco cremisino, vennero portate in solenne processione per la città, con grande concorso dei fedeli, per essere poi collocate sull’altare maggiore dei citati Gastodenghi. Il giovane Pio Battista Riario, che per malattia aveva perso la vista da un occhio, fu condotto dalla madre alla precitata funzione, partecipandovi con molta devozione e speranza. Nell’atto della riposizione delle sacre spoglie, il giovane riacquistò in pieno la vista. La circostanza fu dopo riferita personalmente dal graziato, all’età di 25 anni, al Verzellino che ha tramandato le memorie da cui sono ricavate le notizie in trattazione. Il predetto Riario nel 1623 donava al convento dei Domenicani L. 4000, ottenendo la concessione della cappella del Santissimo Sacramento alla sinistra dell’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Battista in San Domenico. Quando la chiesa di Sant’Agostino fu soppressa nel 1802, le reliquie del Beato Bonifacio furono solennemente collocate sotto l’altare del Buon Consiglio della chiesa di Sant’Ignazio (ora Sant’Andrea) dove restarono fino al 1876, epoca in cui il predetto altare fu ricostruito in marmo. Il parroco di allora dovette necessariamente spostare le reliquie del Beato e le posò sotto l’altare di San Vincenzo. Ciò fu eseguito senza darne notizia alla curia per cui questa, per siffatto autonomo comportamento del parroco, non permise che rimanessero ancora esposte al culto dei fedeli le reliquie di cui trattasi e quindi le stesse furono portate in sacrestia. Dopo quest’ultima vicenda si sono perse le tracce dei santi resti del Beato, essendo sopraggiunti periodi di grande travaglio politico che avevano sensibilmente attenuato ogni fervore religioso. Però padre Raffaele Bracco scrisse in una sua miscellanea: “Le ossa del Beato Bonifazio, ripulite e ricomposte nella sua piccola urna seicentesca, quest’anno 1964, saranno riportate ai confratelli Agostiniani, nella chiesa della Consolazione, che egli vide sorgere dai fondamenti mattone su mattone”. Nella seconda sala quattrocentesca della Pinacoteca Civica di Savona si ammira la “Trasfigurazione”, che riproduce fra l’altro le figure di San Nicola e del Beato Bonifazio con la testa cinta dal nimbo, segno di santità riconosciuta. Si ritiene opportuno sottolineare che gli storici Agostiniani, purtroppo, non fanno alcuna menzione del Beato Bonifacio; di lui tuttavia si era interessato lo spagnolo Herrera che dichiara però di non aver potuto reperire notizie al riguardo. Ad Herrera vennero quindi a mancare sia notizie che prove in merito al Beato Bonifacio; ma di questo personaggio non si può misconoscere l’esistenza, dato che il Verzellino ebbe occasione di parlarne, riferendo altresì della grazia goduta dal giovane Pio Battista Riario. Dal 1628 al 1805 gli Agostiniani furono custodi e ministranti del Santuario della Pace di Albisola. Durante la loro lunga permanenza, il Santuario ebbe momenti molto felici per lo zelo applicato nel far fiorire la devozione alla Madonna della Pace e per l’amministrazione del Convento e luoghi annessi (compresa la strada lungo il Riobasco, i cui lavori iniziarono nel 1630). Gli Agostiniani prestarono servizio anche al Santuario della Madonna della Misericordia di Savona, affermandosi ripetutamente nei turni che venivano sorteggiati fra i vari ordini religiosi esistenti in Savona (Domenicani, Conventuali, Minori Osservanti, Agostiniani, Lombardi-Sant’Agostino, Agostiniani Genovesi-Consolazione, ecc.). Il Ven. Mons. G. Bartolomeo Menochio, illustre agostiniano e confessore di Pio VII, celebrò la messa di ringraziamento dopo l’incoronazione papale della Madonna il 10 maggio 1815. L’ultimo turno degli Agostiniani, come cappellani esclusivi, ebbe inizio il 7 aprile 1899 e si concluse il 30 giugno 1916. L’intreccio fra Agostiniani e Santuario generò una storia che in un certo modo continua, dato che nella chiesa attuale della Consolazione vi è un altare dedicato alla Madonna della Misericordia, con una statua di marmo avente valore storico, perché in passato detta statua aveva ornato una porta della città.

 

LE ORIGINI DELLA CHIESA

Il Verzellino ci fa sapere che fra gli Agostiniani del 1400 si distinsero in modo particolare il Beato fra Battista del Poggio, genovese, Agostiniano fondatore della Congregazione della Consolazione, ed il savonese fra Pio Bartolomeo Fiorito. Essi, avvalendosi della bolla del cardinale Legato Giuliano della Rovere del settembre 1486 già riportata, il 9 giugno del 1487 acquistarono un terreno vicino al ponte delle Pille sulla riva destra del Letimbro, non lontano dalla foce, ed in meno di otto anni fecero costruire un monastero ed una chiesa dedicata alla Natività della Santissima Vergine. Trattavasi di un tempietto dotato di un campanile romanico in cotto a base quadrata, munito -in secondo tempo - sulla sommità di un orologio sovrastante le bifore ad archi rotondi situate sui quattro lati. Per la munificenza di tale Giovanni Nasello, nel 1513, la chiesa fu dotata di un coro in legno. Esso fu gravemente danneggiato a causa di un terremoto, però venne lentamente e gradualmente ricostruito dopo molti anni. Il restauro fu completato nel 1829 ed il coro, di stile settecentesco come si vede ancora oggi, risulta costituito da due ordini di stalli, aventi un lessico corrente solo lungo il secondo ordine. Il coro risulta altresì munito al centro di un monumentale badalone (leggio mobile), anch’esso in legno. La chiesa fu abbellita nel 1619, e nel 1628 fu arricchita con un organo a canne, in sostituzione di quello donato il 1592 dal duca di Tursi, Carlo Doria, per grazia ricevuta dalla Madonna della Misericordia. La chiesa era dotata di sotterranei sepolcrali, per cui il 10 aprile del 1578 vi venne deposto il corpo del principe Marcantonio del Carretto Doria, sposo di Benedetta del Carretto e figlio adottivo di Andrea Doria. Il primo maggio del 1579 venne fondata dagli Agostiniani la “Compagnia di N. S. della Cintura”, che con la “Congregazione della Consolazione” formò associazione molto fiorente. Il convento aveva intanto aumentato il numero dei proseliti ed era abitato da ben 16 frati. La chiesa venne chiamata “della Consolazione”; nel 1725 venne ristrutturata, portandone a compimento la facciata ed il corpo, lasciando nelle condizioni originarie solo il caratteristico campanile. Le opere predette furono eseguite a spese dei frati e con un forte contributo dei numerosi fratelli Naselli, che avevano quattro sorelle monache agostiniane. I fratelli Naselli, a conclusione della loro vita terrena, riposarono nei già menzionati sotterranei sepolcrali della chiesa. Per effetto delle leggi napoleoniche nel 1810 o 1813, la chiesa ed il convento furono abbandonati dai frati i quali, al loro ritorno nel 1828, fecero eseguire i necessari lavori di restauro, portando a compimento l’anno dopo la ricostruzione del coro ligneo. La chiesa si ergeva solitaria in mezzo alle campagne coltivate dell’oltre Letimbro, ma la città nel frattempo si estendeva continuamente, fino ad accerchiare la chiesa con enormi palazzi, avendo cura di lasciarvi davanti un bel piazzale. Tuttavia il trascorrere del tempo e l’infiltrazione di falde acquee minacciavano seriamente le opere murarie della chiesa, per cui, nell’ultimo trentennio, si è dovuto procedere all’esecuzione dei lavori di difesa esterna. Si è operato riparando la copertura, rivestendo le mura con intonaco idrofugo e, per quelle più esposte alle inclemenze climatiche, con pannelli isolanti. Il 24 novembre 1965 Mons. G.B. Parodi istituiva la Parrocchia di Nostra Signora della Consolazione e Santa Rita, con l’avvento del primo parroco, è il caso di citarlo, padre Carlo Breviario. Anche la facciata nello stesso periodo è stata completamente revisionata, sostituendo “ex novo” nel 1975 la porta di accesso alla chiesa. Sono stati attuati anche idonei accorgimenti tecnici atti a prevenire il ristagnare dell’umidità nella muratura. Recentemente è stato anche rinnovato il pavimento della chiesa, con conseguente riempimento delle sottostanti cavità sepolcrali, essendo già ridotti a parete quattro altari laterali, ed adattando l’altare maggiore alle ultime esigenze della liturgia, solo lievemente alterando lo stile architettonico. Ora dalla piazza della Consolazione si ammira la facciata della chiesa nel suo semplice stile barocco settecentesco, con le sue lesene corinzie a due ordini sovrapposti, ornata anche con quattro fiaccoloni laterali che danno slancio alla struttura. Dal breve sagrato a tre gradini si accede al portale in marmo bianco sormontato dallo stemma agostiniano, riportante in centro una freccia inclinata ed il resto abraso per sfregio dai rivoluzionari francesi che avevano bivaccato nel convento e convissuto con i frati. Sul portale, al centro del secondo ordine di lesene, si può ammirare nella sua edicola la statua della “Madonna di Loreto” annerita dal tempo. Trattasi di una scultura marmorea attribuita a Tommaso Orsolino (1587-1675), riproducente la Santa Vergine con in braccio il suo Bambino. La fattura risulta essere di alto valore, soprattutto nelle delicate fattezze del volto e del manto arabescato. Sul capo della Madre e del Bambino spiccano le corone d’oro e sul petto pende una doppia collana aurea. Può essere utile sottolineare il valore dell’opera, in quanto l’Orsolino fu un famoso scultore genovese di statue mariane, ora venerate in diverse chiese fra le quali, in Savona, la Madonna con Bambino della Chiesa di San Giovanni Battista in San Domenico. Il padre del predetto scultore, Pietro Orsolino, è l’autore della statua della Madonna della Misericordia del Santuario di Savona. La statua della Madonna di Loreto era collocata sull’altare maggiore della chiesa dei Certosini di Loreto (oggi vi è l’Opera Pia di Santa Teresa), e fu acquistata da Francesco Astengo che la fece alloggiare nella posizione attuale allorchè, nel 1830, si procedette al restauro della facciata della chiesa in occasione del XIV Centenario della morte di S. Agostino. La porta di accesso della chiesa, che appare ben proporzionata, è ornata con pannelli in rame sbalzato. Dodici riquadri riproducono episodi della vita di Santa Rita. Trattasi di ornamenti di un certo valore artistico, abilmente prodotti in rame a sbalzo nell’officina dei fratelli Faccio di Savona, su ideazione dello scultore contemporaneo Enzo Mannari. Varcata la porta di ingresso e l’angusto tamburo, si accede nella chiesa di stile barocco. Essa è a tre navate, lunga m 16,5, alta m 17. La ripartizione in navate in realtà può considerarsi inesatta, dato che lo spazio prospiciente l’immaginario transetto è caratterizzato dalla presenza in mezzeria di due grossi muraglioni a sezione rettangolare. Questi ultimi sono rifiniti con la tecnica del colonnato, ed hanno la funzione di sostenere gli archi ellittitici longitudinali e trasversali di appoggio al centro di due volte convesse. Il presbiterio ed il coro sono sovrastati dal catino absidale che si collega con una volta a botte confinante con la linea ideale del transetto. Le due navate laterali sfociano nel deambulatorio. Quello di sinistra, un tempo adibito a sacrestia, è stato trasformato ed adattato a cappella, mentre quello di destra, già temporaneamente impiegato come sacrestia, si presenta completamente estraneo al contesto architettonico della chiesa e contiene, in un vano della parete di fondo, il fonte battesimale mobile. Da questa descrizione sembra potersi sottintendere il proposito dell’ignoto architetto di ripartire lo spazio interno, sia pure impropriamente, a crociera latina, attenuando la fredda forma rettangolare dell’ambiente. Al di sopra degli archi longitudinali corre un cornicione praticabile transennato, che si collega con quello costruito nella zona absidale ed in vicinanza della facciata; per cui a mezzo di esso si ottiene la praticabilità aerea di tutto il perimetro della navata centrale. L’illuminazione naturale della chiesa è contenuta, forse per elevare la misticità dell’ambiente. La luce proviene solo da un finestrone esistente sulla sommità della facciata, da tre finestroni elissoidali situati sul lato sinistro, sovrastanti il cornicione praticabile della navata centrale, e dalle due vetrate che fiancheggiano l’organo sovrastante il coro. Le fonti di luce, anziché avere i tradizionali vetri policromi, hanno un vetro giallognolo di discutibile effetto. Sull’altro lato della chiesa non vi sono finestre, forse per evitare i danni che possono essere causati dalle certe e ricorrenti inclemenze climatiche provenienti dal nord. Le due minuscole navate laterali sono prive di luce naturale.

 

DENTRO LA CHIESA

L’interno della chiesa è tutto decorato in stile barocco con ornamenti geometrici e floreali. Notevole è l’elegante artificio architettonico di far sporgere delle lesene dalla muratura, atte a configurare dei pilastri colonnari appena sporgenti, per giungere ad ornare la sommità degli stessi con frontali di capitello di stile composito. Alla base invece l’artificio scompare, per cui tutti i perimetri in muratura sono coperti da un alto zoccolo di marmo giallo fiammato veronese. Nel centro del presbiterio, davanti al coro in legno, troneggia l’altare seicentesco in marmo bianco, intarsiato sapientemente con marmo persegnino di Levanto su di un nuovo recente impiantito, di tre gradini, sempre in marmo bianco. Trattasi di un vero gioiello che Domenico Buscaglia attribuisce a Filippo Parodi (1630-1702). Anche la mensa eucaristica è in marmo bianco, finemente lavorata in bicromia come l’altare, ed è situata sul bordo anteriore del precitato impiantito. Essa è corredata di un artistico paliotto e di una nivea colonnetta cilindrica in marmo di Carrara sulla quale è posato un simulacro ligneo finemente scolpito e decorato, riproducente un putto reggente la lampada per il Santissimo. Il presbiterio termina in corrispondenza della linea dell’ideale transetto ed è delimitato da una agile balaustra marmorea formata da colonnette rotonde profilate, sulle quali poggia un longherone pianeggiante. La balaustra sovrasta i due gradini che adducono al piano della navata centrale. Sull’angolo alla sinistra della balaustra -come riferisce il vecchio parrocchiano Francesco Scotto- era ubicato il pulpito, ornato con formelle di stucco riproducenti a rilievo disegni ornamentali; quella centrale mostrava lo stemma agostiniano. L’accesso del predicatore al pulpito era consentito da una scala in ferro battuto congegnata a chiocciola. Ora del pulpito e della scala elicoidale è scomparsa ogni traccia. Pertanto, allo stato attuale, si rileva la stonatura di una chiesa in stile barocco completamente priva di ogni traccia del pulpito che viceversa caratterizza lo stile architettonico adottato per l’edificio. Adesso il predicatore si avvale di uno schematico leggio, situato a ridosso della balaustra di sinistra; tuttavia si fa forte per merito del microfono, il quale potenzia la voce e favorisce l’ascolto. Purtroppo non si generano nell’ascoltatore le sensazioni e le emozioni che sono capaci di promuovere le espressioni e la gestualità del predicatore. L’organo a canne è situato sulla tribuna sovrastante il coro ed ha la balaustra in legno che, con armoniche ondulazioni, segue il perimetro rotondeggiante della parete absidale. Questo strumento è composto di 367 canne, 21 delle quali, tutte principali, sono situate in facciata e disposte a triplice cuspide. Vi è un unico manuale di 56 tasti, con prima ottava cromatica ed una pedaliera a raggiera piana con 24 pedali collegabili alla tastiera. L’organo è munito anche di 8 registri: essi sono azionati da manopole a incastro disposte verticalmente alla destra della tastiera. Tre manopole supplementari inseriscono la principale, l’ottava, ed il collegamento della pedaliera alla tastiera. Nella parte sottostante la tastiera vi sono tre pedaletti, rispettivamente per il distacco tasto-pedale, per la terza mano e per il mezzo-forte. Un quarto pedaletto è stato asportato perché privato della cassa espressiva delle gelosie. Chiaramente si tratta di una riduzione di effetti, inflitta allo strumento che tuttavia non ne manifesta le conseguenze se non a competenti e adusi a raffinatezze armoniche e metodiche. Le origini dell’organo risalgono forse al 1628 ed in un primo tempo era attivato da un mantice a cuneo, azionato manualmente con apposita stanga di legno, in funzione di leva: quest’ultima sporgeva sul lato sinistro dell’armadio di contenimento, che era munito di decorazioni pittoriche e dorature aventi il IV grado di fattura. Con il trascorrere del tempo, l’organo fu ripetutamente revisionato, modificato ed aggiornato con le apparecchiature che il progresso in materia forniva, fino ad acquisire, nel 1906, l’odierno aspetto: fu applicato un elettroventilatore e somiere di contenimento dell’aria di pressione, grazie ai ripetuti interventi di Gerolamo Mordeglia, 1868-1947, organaro di Celle Ligure, e del figlio Leonardo. La timbrica dell’organo però è ancora quella classica. Purtroppo, questo è stato per molto tempo in disuso e supplito da un moderno organetto elettronico che nulla ha a che fare con la maestosa espressività, con la potenza e l’incidenza emotiva del vecchio organo a canne. L’antico e poderoso strumento, che per molti lustri ha accompagnato con la sua voce armoniosa ed imponente tutte le funzioni rituali degli agostiniani nell’antico tempietto lungo il Letimbro, se ha fatto per molto tempo solo da vistoso ornamento sulla sommità dell’abside, non ha mai perduta la speranza di riprendere le proprie funzioni. Questa speranza, ultimamente, è stata appagata e di ciò si deve dar merito anche al giovane e promettente maestro organista Eugenio Alessandria che ha revisionato e riparato l’antico organo, lavorando con capacità, pazienza e passione. Ora l’organo ha ripreso le sue antiche attitudini a spargere nel tempio armoniose melodie esaltanti le virtù ed i doni della Provvidenza, inducendo altresì nei fedeli l’esaltazione nella preghiera e nel ringraziamento per i doni ricevuti dalla fede. Il catino absidale è decorato con un affresco riproducente la Colomba simbolo dello Spirito Santo in gloria, in un gorgo luminoso a cui fa ornamento una corona di angeli e cherubini. Il dipinto sembra essere opera dello stesso pittore che ha decorato l’attigua volta a botte del presbiterio. La volta del presbiterio è affrescata con un “Sant’Agostino in gloria”. L’affresco si presenta di estrema nitidezza e fu eseguito nel 1906 dal genovese Raffaele Resio (1854-1927), il “pittore degli angeli”, divenuto un adottivo savonese, essendo vissuto lungamente a Lavagnola, dove mori. Sulle due pareti laterali del presbiterio si notano due grandi pitture, attribuite a Domenico Parodi (1668-1740), che riproducono sul lato destro “l’Annunziata” e sull’altro lato “San Nicola da Tolentino”. Trattasi di due opere del ‘700 che rispecchiano lo stile della scuola pittorica genovese dell’epoca che, ricorrendo ad opportune gradazioni di tinte, riesce ad ispirare devozione e misticismo. La volta centrale vicino alla linea del transetto è decorata con un affresco rappresentante la “Madonna della Consolazione fra Sant’Agostino e Santa Monica”, circondata da angeli e cherubini, mentre nell’altra volta centrale, confinante con la facciata, è rappresentata “Santa Rita in gloria”. Trattasi di opere pittoriche eseguite dal savonese Felice Delle Piane nel 1955, con l’impiego di una tecnica di tipo ottocentesco dello stile del Resio, con le immagini ben proporzionate di una vibrante espressività e leggerezza, perché raffigurate librate nel cielo. Il volto della Madonna riproduce le sembianze di una bella e pia parrocchiana, ancora dedita alle opere di misericordia della chiesa, e i visi degli angeli sono i ritratti dei nipoti del pittore. Agli angoli delle due predette pitture sono raffigurati dei medaglioni che riproducono soggetti sacri, aventi carattere di ornamento e finitura per l’affresco di “Santa Rita in gloria”. I medaglioni agli angoli dell’altro affresco riproducono invece le immagini del Beato Stefano Bellesini, parroco; di San Nicola da Tolentino; di Santa Chiara da Montefalco; della Beata Veronica da Binasco. Le quattro voltine delle navate laterali contengono affreschi riproducenti immagini che ricordano episodi della vita di Santa Rita, eseguiti dal già citato Delle Piane. Il lavoro pittorico risulta eseguito con maestria, essendo rispettate le proporzioni e le tonalità cromatiche delle immagini e degli ambienti. Purtroppo, detti ornamenti non riescono a dare quel risalto di cui sono capaci, dato che sono posti in luogo dove incombe la semiocurità. Sulla sommità della parete interna della facciata, sotto il finestrone, è ubicata in una nicchia la statua di una Madonna con un infante in braccio. La statua ben modellata con mano sicura da un artista molto abile (il cui nome non risulta a noi tramandato) presenta chiaramente i segni di una rilevante vetustà. Da ciò si può presumere che le origini della chiesa risalgano proprio alla fondazione del tempietto dedicato alla “Natività della SS.ma Vergine”. Entrando nella chiesa, sull’angolo sinistro, a poca distanza dal pavimento, si può vedere una grossa nicchia; in essa sono esposte alla venerazione due statue in legno policromo, raffiguranti la “Madonna della Cintura” e San Nicola. Si ritiene essere in presenza di opere attribuibili al famoso scultore genovese Anton Maria Maragliano (1664-1739), autore di numerose opere scultoree di soggetti sacri, aventi rilevante valore artistico. Non può escludersi però la paternità, per dette opere, di Giovan Battista Bissoni (1574-1636), anch’egli valoroso artista, o di Giovanni Andrea Torre. La nicchia, priva di ogni protezione, posta in basso ed in posizione angolata, costituisce una soluzione disarmonica rispetto alla simmetria architettonica della chiesa. A ciò si aggiunga che una simile opera d’arte è soggetta ai danneggiamenti che vengono provocati da fanatismo o profanazione. Il primo altare alla sinistra della chiesa era dedicato a Santa Monica; vi troneggiava un grosso quadro di grande valore riproducente la Santa, dipinto con maestria da ignoto. Essendo gravemente danneggiato dall’umidità, venne rimosso e quindi appeso sulla parete dritta del deambulatorio di destra. Attualmente, al posto del quadro, è esposto un venerando Crocifisso che, prima di sostare nella penombra della navata di sinistra, appeso alla parete del muraglione colonnare, troneggiava in centro, sulla sommità dell’altare maggiore. Al suo posto ora vi è sull’altare, un altro Crocifisso, privo di ogni pretesa artistica, donato dalla famiglia Del Buono. Il successivo altare, sempre sul lato sinistro, espone alla venerazione la tavola che riproduce “N. S. della Cintura fra Sant’Agostino e San Nicola”. E’ un’opera di grande valore artistico, certamente la maggior ricchezza della chiesa, dovuta al pennello di Luca Cambiaso (1527-1585), detto il Raffaello genovese. Purtroppo gli esperti ritengono che non si tratti di opera del Cambiaso ma di una mano appartenente alla sua scuola. L’altare, il più sfarzoso della chiesa, reca ai lati del quadro predetto due lesene colonnari, guarnite sulla sommità con frontali di capitello; in alto questi sorreggono un timpano triangolare interrotto, dalla cui spezzatura sbalza in centro una sfarzosa raggiera aurea, recante in mezzo una nera colomba tra sei puttini dal volto bianco. Ai lati di questo altare si notano inoltre due affreschi in chiaroscuro, riproducenti San Tommaso da Villanova vescovo di Valenza in Spagna, e San Giovanni da Sahagùn o da San Facondo, eseguiti dal savonese Paolo Gerolamo Brusco (1742-1820), detto Bruschetto, sepolto in questa stessa chiesa. Lo stesso Brusco, assieme al fratello Stefano (1745-1831), eseguì gli affreschi del catino dell’abside e la volta del presbiterio della chiesa di San Giovanni Battista in San Domenico di Savona. Il primo altare a destra della chiesa è dedicato alla Madonna della Misericordia. Nella nicchia a fronte è posto il simulacro marmoreo, eseguito dal già citato scultore ed architetto genovese Filippo Parodi (1630-1702), allievo del Bernini e perciò chiamato il “Bernini genovese”. Quest’ultimo era il padre di Domenico Parodi, che avrebbe dipinto i quadri situati nel presbiterio e di cui si è già parlato. Si deve però rilevare che la predetta statua potrebbe essere quella già esistente a Porta Villana e che sarebbe opera di Stefano Sormano (1603-1648) che la scolpì nel 1825. La statua di cui trattasi, situata prima su una porta delle mura di cinta dell’antica Savona, fu salvata da una casa abbattuta per far posto al ponte ferroviario, quindi traslocata nella chiesa il 12 dicembre del 1870. L’altare è ornato con stucchi dorati avvolgenti, ripetutamente restaurati a causa del continuo attacco dell’umidità. L’illuminazione elettrica è praticata mediante un tubo fluorescente bianco, contornante il profilo della nicchia stessa. La nicchia ed il piedistallo erano un tempo rivestiti a mosaico con tavolette ceramiche azzurre e bianche: indubbiamente si era al cospetto di una soluzione ornamentale che, pur esaltando la visualizzazione della Madonna nella nicchia, non aveva nulla a che fare con lo stile barocco della chiesa, dato che richiamava chiaramente i moderni rivestimenti che vengono messi in opera in particolari ambienti delle civili abitazioni. Recentemente, nel corso dell’ennesimo restauro, le tavolette di mosaico sono state occultate e ricoperte da uno strato di pittura azzurra opaca, eliminando quindi una parte di tale contrasto e riavvicinandocisi allo stile della chiesa. D’altro canto, la soluzione menzionata è consona all’epoca in cui venne eseguito il lavoro, fatto in occasione di un ennesimo restauro, attuato a spese di Stefano Del Buono per devozione ed in suffragio della sua defunta madre. L’altare seguente era un tempo dedicato alla Madonna del Buon Consiglio e, secondo dichiarazioni orali del vecchio parrocchiano già menzionato, vi era esposta una tavola quattrocentesca molto bella e di non trascurabile valore artistico, dipinta da Albertino da Lodi (secolo XVI). La Madonna del Buon Consiglio era molto venerata e l’altare era mèta continua di fedeli. L’altare era attrezzato con un panneggio mobile manovrato con funi che facevano capo a una piccola nicchia, situata in basso alla sinistra dell’altare stesso. Manovrando le funi si faceva smuovere il panneggio in modo tale da esporre o coprire con il panneggio stesso l’immagine della Madonna, a seconda delle esigenze religiose in uso in quell’epoca ai fini del culto. L’opera predetta, sempre a detta del vecchio parrocchiano, ha dovuto però emigrare altrove. Si ritiene tuttavia doveroso riferire che nella seconda cappella a sinistra della chiesa di S. Andrea a Savona si ammira un dipinto pregevole dello stesso autore, avente il medesimo soggetto. Si tratta di altra opera, rilevata dalla chiesa di S. Agostino di Savona, allorché la stessa fu dissacrata e demolita. Ora, sull’altare in questione opportunamente ristrutturato, è esposto alla venerazione un quadro riproducente l’immagine di S. Agostino, dipinto con buona maestria da ignoto artista. L’ornamento in stucco, sebbene rilevante, si presenta solo definito al grezzo e non fornito di guarnizioni con funzioni cromatiche. Ai lati dell’altare scorre un alto zoccolo in marmo, che copre anche la citata nicchietta delle funi; ciò si può percepilw dal suono particolare che si ricava battendo, con le nocche delle dita, sul marmo in corrispondenza dello zoccolo. Fra i due altari già descritti ora vi è la porta che adduce alla sacrestia e ad un altro ingresso della chiesa. Un tempo detta porta non esisteva e dal suo varco, scendendo vari gradini protetti da corrimano, si accedeva ad una cappelletta. Qui era esposto alla venerazione il quadro della “Madonna della Cintura fra S. Monica e S. Nicola”, che ora è appeso alla parete di sinistra del deambulatorio a dritta, di cui si parlerà più innanzi. Successivamente, al posto di detto quadro, fu esposto un dipinto di forma ovale riproducente l’immagine di S. Rita. Cominciava ad infuriare la prima guerra mondiale e la cappelletta divenne mèta continua di fedeli, che vi affluivano anche da lontano, professando la devozione che può competere ad un miracoloso santuario. Il crescente culto per S. Rita indusse i frati a dare una soluzione soddisfacente alla marea di devoti, per cui il deambulatorio di sinistra della chiesa, adibito a sacrestia, fu trasformato in cappella dedicata alla Santa. Il deambulatorio di destra venne pertanto adattato a sacrestia, finché non venne decisa una radicale trasformazione. Con una serie di lavori, la cappelletta citata innanzi venne trasformata per altri usi e, nell’area antistante, venne eretto un fabbricato, ricavandovi la nuova attuale sacrestia. Inoltre fu soppressa la rampa che accedeva all’organo con scomodo passaggio alla sua sinistra (esistente nella sacrestia trasformata in cappella in onore di S. Rita), aprendo a tal uopo un nuovo comodo passaggio sulla destra dell’organo, direttamente dal convento. Il deambulatorio di destra, adibito temporaneamente a sacrestia, acquisiva le sue nuove funzioni ed in particolare diveniva la sede del fonte battesimale; questo si componeva di un battistero mobile, ubicato in un vano ricavato sulla parete di fondo, sovrastato da un finestrone semicircolare e con una elaborazione murale simulante due colonne ornamentali, ricavate ai lati del vano stesso. Sulla sommità della linea del transetto delle due navate laterali vi è, per ciascuna navata, una nicchia che contiene una statuetta. Le due figure risalgono probabilmente alla stessa epoca della statua situata nella nicchia esistente sulla parete interna della facciata e di cui si è già parlato. Trattasi dei simulacri rispettivamente di S. Pietro e di S. Paolo. Al di sopra delle nicchiette s’intravvedono due quadri in piena penombra e in posizione inaccessibile, tanto da far supporre di essere alla presenza di due preziosità da sottrarre con rigore alla eventuale avidità di ogni sguardo profanatore. I dipinti risultano eseguiti con colorazioni molto cariche e di notevole effetto cromatico e la perfetta esecuzione delle opere è certamente il frutto di pittori dotati di notevole talento, facendo addirittura riferimento ad un Rubens od alla sua scuola. In realtà, il quadro situato sulla navata di sinistra sarebbe opera di Orazio Borgianni (1578-1616) imitatore di Caravaggio, e riproduce un crocifisso quasi introvabile in uno scenario assai cupo e carico di mistero. L’altro quadro, ubicato sulla navata di destra, ci mostra il busto di una Madonna con avanti un bambino. Il dipinto, opera di Domenico Piola (1627-1703), fa intravedere luci, colori e lineamenti che denotano bellezza, serenità e misticismo. Alle spalle di detto quadro vi era una finestrella comunicante con il convento. Le stazioni della “Via Crucis” sono costituite da riquadri in ceramica in bassorilievo; tale opera è di notevole pregio artistico ed è eseguita dal Berzoini. Il deambulatorio di destra è un locale a forma prismatica; le pareti sono prive di specifici ornamenti. Si distingue però la parete di fondo, nella quale è praticato un vano, sormontato da un finestrone semicircolare, fiancheggiato dalla simulazione di due colonne cilindriche affioranti dalla parete, nella quale trovasi il battistero mobile, di legno con ornamenti e guarnizioni in rame ed in bronzo. Alle pareti sono appesi dei quadri che attirano l’attenzione del visitatore, per la loro bellezza, antichità e per un certo pregio dovuto al pennello di validi pittori. Cattura lo sguardo il grande quadro di Santa Monica, già menzionato, che suscita ammirazione per l’espressività dei lineamenti del soggetto, ed anche per la soffusa penombra dell’ambiente riprodotto. Non si può tacere però il suo grave deterioramento, dovuto certamente a incuria e trascuratezza prolungata nel tempo. Sulla stessa parete si notano i quadri ovali nei quali sono contenute le immagini del Beato Bonifacio Vaserario (agostiniano savonese), di San Luigi, di San Vincenzo Ferreri, predicatore domenicano e di un Beato agostiniano, forse fra Battista del Poggio, dipinto nel ‘500. Sulla parete opposta si ammirano tre quadri di notevole pregio. Il dimensionamento dei soggetti e degli oggetti, l’espressività e le gradazioni cromatiche delle tinte sono caratteristiche riferibili ad artisti della scuola genovese; tuttavia non si conosce il nome dei valorosi pittori. Fa eccezione un primo quadro nel quale si può ammirare un “Sant’Agostino in gloria”, dipinto nel 1806, attribuibile al pittore napoletano, adottivo savonese, A. Pevivo. Il secondo quadro riproduce l’immagine di Sant’Agostino. Il terzo quadro è veramente molto bello, per i suoi tratti sicuri e per la chiarezza cromatica delle tinte, che ci permette di ammirare la “Madonna della Cintura fra Santa Monica e San Nicola da Tolentino”. Il deambulatorio di sinistra è stato adibito, come già detto, a cappella, dedicata a Santa Rita, la cui immagine è riportata su di un grosso quadro rettangolare posto al centro dell’altare. Le pareti laterali, ripulite degli ex-voto e dei numerosi pii ricordi per grazie ricevute che le coprivano fino al soffitto, fanno sfarzoso ornamento alla cappella per essere state artisticamente decorate e munite di un alto zoccolo marmoreo. Ad esso fa riscontro il nuovo pavimento a figure geometriche con marmo pregiato di tre colorazioni, donato dal pugliese Giuseppe Toscano, marmista di Savona. La volta è decorata con un unico grandioso affresco, riproducente un grosso quadro votivo, in cui si nota nel cielo la figura di Santa Rita, invocata per bisogno. L’immagine raffigura infatti il momento nel quale la Santa salva un malato che giace sofferente nel letto ed un bimbo che viene ripescato dal pozzo. Il predetto affresco, opera originaria di Felice Delle Piane è stato recentemente restaurato, perché gravemente alterato dai fumi delle innumerevoli candele votive che venivano accese nella cappella. Il restauro è stato eseguito dal pittore contemporaneo Pasquale Dentice di Varazze ed ora l’affresco si presenta con colorazioni di forte contrasto, rimanendo così completamente travisati lo stile, l’espressione e l’armonia cromatica che vi aveva infuso il Delle Piane. L’accesso allo spazio dove è situato l’altare di marmo opera di G.B. Galleani è delimitato da un giardino e da una piccola balaustra marmorea. Il grande quadro di Santa Rita posto sull’altare fu eseguito in stile ottocentesco dal pittore Stefano Ughetto da Dolceacqua (1860-1946) e finito il 15 settembre 1937. Il quadro è contornato da una elaborata cornice cava, dal cui bordo fuoriesce, timidamente verso l’immagine, una tenue luce sapientemente soffusa. Per evitare il danneggiamento delle nuove decorazioni e degli ornamenti della cappella è stata abolita l’usanza di accendervi candele votive; così sulla sommità della parete di sinistra sono stati ricavati due grossi finestroni che, oltre a fornire una buona illuminazione laterale, consentono anche un efficace ricambio dell’aria dell’ambiente, invero assai piccolo. Quest’ultima esigenza è particolarmente sentita nell’occasione annuale dei festeggiamenti per la Santa. Questi richiamano nella cappella un gran numero di visitatori, attratti per devozione e, perché no?, anche per ragioni turistiche e folcloristiche, dato che per l’occasione nella piazza della chiesa e nelle strade adiacenti si installano “le bancarelle”. Alla sera tutto si illumina variamente, per la vendita di dolciumi, giocattoli, fiori e tante altre cose, così come accade in occasione di importanti ricorrenze e feste annuali, proprie dei santuari più noti per il grande concorso della popolazione. Stanti le minuscole dimensioni della cappella, non è possibile in essa eseguire le numerose celebrazioni rituali che vengono attuate per l’intera giornata della festa. I riti pertanto vengono celebrati all’altare maggiore. A tal uopo, un tempo, l’altare predetto e la navata centrale della chiesa venivano ornati con purpurei drappeggi e cordoni, con fiocchi e frange dorate che scendevano lungo le pareti dal cornicione praticabile e le lesene colonnari. Per fare ciò occorreva l’opera di valorosi addobbatori che ogni volta, per dare risalto ai pesanti panneggi, fissavano gli stessi alla muratura, a mezzo di robuste chiavi metalliche infisse con forza. Quando si procedeva alla rimozione del tutto, restavano visibili grossolani segni nelle murature, con conseguente dissesto delle stesse che aumentava di anno in anno. Per non tacere del sorgere di una nuova coscienza igienica che induceva a respingere i drappeggi i quali per gli innumerevoli impieghi erano ormai pregni di polvere forse infetta. Fu deciso quindi di abolire questo tipo di occasionale ornamento della chiesa. In sostituzione di tali apparati, su ideazione di un parrocchiano, da circa un decennio, al centro dello spazio sovrastante l’altare maggiore viene esposto un quadro ovale riproducente l’immagine di Santa Rita. Il dipinto, risalente al 1938, risulta eseguito con apprezzabile maestria dalla pittrice savonese Noemi Chiappa, recentemente scomparsa, che ha sfruttato la sua abilità nel dare all’opera uno stile settecentesco, con colorazioni piuttosto soffuse, miranti ad evidenziare l’immagine della Santa. Nel 1940 la stessa pittrice dipinse un altro quadro rettangolare di Santa Rita, ricalcando l’immagine ormai classica di Stefano Ughetto. Il quadro in parola, benedetto dal papa Pio XII il 6 aprile 1941, Domenica delle Palme, si venera nel santuario di santa Rita da Cascia alla Barona di Milano. Il quadro ovale di Santa Rita, citato prima, ed usato nelle celebrazioni della annuale ricorrenza, è stato ornato con tubi fluorescenti profilati, aventi lo scopo di incorniciare e illuminare l’immagine, oltre che con l’ausilio di un altro riflettore. La soluzione, di dubbio gusto, consente un efficace effetto in quanto a visuale e richiamo emotivo, senza alcun rimpianto per gli obsoleti drappeggi degli addobbatori. Nella ricorrenza della festa è ancora viva la tradizione delle rose benedette di Santa Rita, tanto ambite come mezzo taumaturgico dalla marea popolare; in tale occasione si constata la grande devozione che attira un gran numero di fedeli nella cappella della Santa, festosamente illuminata dai riflettori e dai due lampadari che pendono ai lati del quadro. Non per nulla l’iniziale consacrazione del luogo di culto (N. S. della Consolazione) è quasi del tutto dimenticata, e oggi il tempio è solitamente conosciuto come “Chiesa di Santa Rita”.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE

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P. Tito da Ottone Capp., L’aspetto religioso del ‘400 savonese, (Alfonso Maria Frecceri) pp. 111-121.

P. Donato Calvi, Delle memorie istoriche della Congregazione d’osservanza di Lombardia dell’Ordine di S. Agostino, Milano 1969 (presso Francesco Vigone), pp. 116-117-130.

GB. Rocca, Chiese e ospedali della città di Savona, Lucca, Camoretti 1872.

 



Bibliografia
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